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Intervista a Stefano Todeschi, esperto di Public Speaking, sul Personal Branding

Per la serie di incontri sul branding oggi siamo con Stefano Todeschi, esperto di Public Speaking. Approfittiamo di questa opportunità per conoscere il suo punto di vista sull’influenza della comunicazione nella costruzione del personal branding e più in generale della brand reputation.

Benvenuto Stefano e grazie per essere qui con noi. Durante questa chiacchierata ti faremo come da format 5 domande per conoscere le tue idee in materia. Partiamo!

Quali sono i punti deboli nella comunicazione con l’uso delle parole e del linguaggio del corpo? Come si lavora su se stessi per superarli?

Questa domanda richiede una risposta corposa, e potrei farti sentire sentire in ostaggio, ma ritengo necessario andare in profondità.

Dalla mia esperienza pratica noto due grandi punti deboli nella comunicazione dal vivo: uno è il vizio di voler comunicare a pezzi, l’altro è il prestazionalismo. Sento spesso persone commentare in modi simili a questo: “il mio paraverbale ha espresso…”. Frasi come questa hanno senso solo in apparenza. Supponiamo infatti di voler riprendere una persona per aver assunto un comportamento disdicevole e censurabile.

Potremmo farlo con un atteggiamento di comprensione, oppure con collera o con simpatia. Ebbene, a parità di messaggio – il comportamento è stato disdicevole e censurabile – il nostro atteggiamento verso la persona ne condiziona l’espressività dell’eloquio – il para verbale, come si ostinano a chiamarlo certuni. E tale espressività finisce, inevitabilmente, per condizionare il lessico utilizzato per il medesimo contenuto di messaggio. Parole e relativa espressività solo dunque inscindibili e si condizionano a vicenda. Il consiglio è, allora, di evitare di frammentare la realtà e perciò la propria comunicazione: sentiamo quanto la nostra espressività sia cosa unica con le parole che usiamo e le intenzioni che abbiamo.

L’altro problema è il prestazionalismo. Una visione frammentaria della realtà può spingerci al voler comunicare dando una bella prestazione di noi. Questo può portare a un atteggiamento focalizzato solo sul fare “bella figura”. Anche in tal caso finiamo per frammentare ulteriormente la nostra comunicazione: perché ancora una volta l’aspetto estetico è scisso dal contenuto. In una visione come questa, ciò che conta non è dire le cose con opportune finalità di relazione e di comportamento, ma dirle bene, in modo che gli interlocutori apprezzino la nostra bravura. Insomma, è come fare un regalo a una persona puntando solo sulla carta del pacco e il fiocco trascurando però il dono stesso. E dunque, come si lavora su se stessi per superare questi “punti deboli”?

Per prima cosa chiediamoci se sia più importante il fare bella figura oppure che le persone partecipino dei nostri contenuti. Poi dovremmo spostare il focus, appunto, da noi e dalla nostra prestazione ai contenuti medesimi: il messaggio (che cosa voglio dire) e il fine del messaggio (che cosa voglio ottenere: adesione alla causa, discussione, vendita…). Poi si può lavorare sull’espressività, dalla voce alla gestualità e via dicendo, ma sempre in stretta relazione con i contenuti e le finalità.

Come Il public speaking può contribuire al personal branding e quindi influenzare la reputazione e la percezione che gli altri hanno di te?

Tutti noi teniamo alla percezione che gli altri hanno di noi. Desideriamo sentirci apprezzati. Il public speaking consiste nel parlar in pubblico e cioè nel condividere contenuti che escono dalla nostra privatezza per farsi appunto pubblici (con una persona, ma anche dieci o mille e più). Legato al personal branding vi è il concetto di autorevolezza. Questa parola mi piace particolarmente e trovo che sia come la bellezza: l’autorevolezza non è infatti un vestito che possiamo indossare, ma è più negli occhi di chi ci ascolta. Se le persone ci percepiscono autorevoli probabilmente ci sentono come autori di ciò che diciamo: le due parole hanno medesima radice e origine. Ma di che cosa siamo maggiormente autori se non di come noi stessi siamo, e cioè di noi stessi? E questo, in pratica, non è forse personal branding? Dalla nostra focalizzazione su quanto diciamo – prima ancora che come lo diciamo – le persone possono percepire quanto crediamo nelle nostre affermazioni. Diciamo cose che ci appartengono, ne siamo autori, ecco perché gli interlocutori possono percepire che ci crediamo davvero.

Quando si è su un palco ed una platea in ascolto, da dove si parte per creare la connessione con i destinatari della tua comunicazione?

La connessione con i destinatari consiste nella condivisione di “nessi” su un tema. Anche su un palco, con una platea in ascolto, si può pensare che la comunicazione sia a senso unico e cioè dal relatore al pubblico (o destinatari). Questo avrebbe senso volendo trattare i presenti come soggetti passivi: un po’ come fossero vasi di coccio da riempire di un qualche fluido. Chi vuole questo deve accettare un rischio probabile: che il pubblico prima o poi perda interesse e si addormenti, proprio in quanto passivo.

Per creare una connessione con le persone in ascolto, anche da un palco, è allora necessario porsi per primi… in ascolto. In pratica: entrare in scena, salire sul palco o alzarsi in piedi, a seconda dei casi, e attendere qualche istante e ascoltare il silenzio. Parentesi: non è vero: noterete subito che il silenzio, quello assoluto, nella realtà non esiste. E in questa piccola attesa prima di iniziare possiamo ascoltare noi stessi in quel “silenzio”. C’è un fatto pratico notevole che dobbiamo tenere bene a mente: la prima persona che ascolta ciò che noi diciamo siamo noi stessi.

Quando ci sentiamo insicuri, sentiamo che diciamo le cose con insicurezza e questo non fa che dilatare il nostro disagio. Al contrario, quando sentiamo che stiamo condividendo idee in cui crediamo e sentiamo il vigore della nostra espressività, questo fatto ci galvanizza di per sé. Ora, come agisce tutto ciò sulle persone cui stiamo parlando? Come reagiscono? Come ci guardano? Quanto commentano? Anche questo è ascolto. Perché, a meno di non voler comunicare con un video – finito nella sua fissità – se stiamo parlando da vivi con persone vive, ebbene, anche da un palco, la relazione deve poter essere viva. Questa è vera connessione.

Le critiche e i feedback negativi durante un discorso, indipendentemente dalla dimensione del pubblico, sono un bene o un male?

Penso che le critiche che possiamo ricevere, quando siamo in buona fede, perlopiù sono un bene. Naturalmente critiche e feedback devo essere pertinenti: per esempio, in una situazione professionale non mi aspetto critiche sulla mia vita privata. Per questo, in definitiva, le critiche devono essere espresse con rispetto della persona – e qui non perdiamo nemmeno tempo ad aggiungere altro. E poi devono essere circostanziate: quando le riceviamo dobbiamo cioè capirne rapidamente il senso.

Tuttavia, qualora non fossero circostanziate, e magari gratuite o finalizzate alla nostra denigrazione, ciò potrebbe costituire punto a sfavore del criticante. Basterebbe chiederne ragione: in pratica è sufficiente mostrare di non capire il senso o i nessi con… Et voilà! Di solito, chi critica per criticare finisce per comportarsi come la mosca alla finestra: tenta di uscirne a capocciate ma invano.

Quando invece le critiche sono sensate ci permettono di chiarire, di approfondire, di mostrare che ascoltiamo le persone – ma deve essere vero. Ci permettono anche di usare l’obiezione per dire di più e con più precisione. Per farlo in pratica, è necessario usare le esatte parole di chi ha parlato e sviluppare contenuti su quei precisi concetti. Naturalmente in relazione a quanto è di nostra competenza e quanto è di nostra conoscenza.

Quali sono le tue opinioni riguardo ad un possibile conflitto tra l’etica professionale e la necessità di raggiungere i risultati? Hai mai avuto esperienze di questo tipo e come le hai gestite?

Questo mi fa venire in mente il 2020. A causa del lockdown avevo perso ogni fonte di reddito, perché, mentre oggi lavoro con i clienti per lo più a distanza in video call, allora lavoravo solo in presenza. In una corsa contro il tempo ho cercato di imparare tutto sul mondo dell’online. Ho scoperto che cosa sono i funnel e mi ci sono buttato a capofitto. Ma ho impiegato un’eternità a realizzare il primo funnel di vendita online. Non solo: spendevo ore per girare video di vendita di pochi minuti. E non capivo bene perché. Ma non bastava la tecnica (che conoscevo perfettamente)?

La verità era che io, a mia volta, da utente detestavo finire nei funnel altrui. Come potevo pensare di riuscire a fare qualcosa in cui non mi riconoscevo? Ecco che la frammentazione fra i miei valori, i miei gusti, le mie idee e la bella prestazione cui puntavo mi creavano enormi problemi di risultato. Volevo risultati, ma senza il rispetto della mia etica fondante: il rispetto di me stesso. Che sta ala base di qualunque etica professionale, proprio perché la prima persona che mi ascolta quando parlo sono io stesso.

Le mie scelte – ancorché dettate dalla necessità economica – non erano in linea con i miei gusti e perciò non rispettavo me stesso. Vedi, prima ho parlato di contenuti e fini, e io penso che i nostri valori siano di per sé intrinseci dei nostri contenuti: ancora una volta non possiamo frammentare. Perché il rischio è frammentare se stessi, e questo può solo procurare danni, anche alla nostra salute. Perché penso che personal branding e comunicazione devono poter essere un unico integro e coerente. Da qui ne discende la nostra autorevolezza – o reputazione. E onestamente anche il nostro benessere.

L’intervista con Stefano si conclude qui e lo ringraziamo per averci condiviso il suo punto di vista. Credo che questi contenuti possano contribuire ad una maggior consapevolezza su questo tema.

Qui vi lascio i suoi riferimenti e vi invito a scoprire altre interviste e chiacchierate sul Branding.

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