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Intervista ad Emanuela Goldoni: inclusività nella comunicazione dei Brand
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Intervista ad Emanuela Goldoni sull’inclusività nella comunicazione dei Brand

Per la serie di incontri sul Branding oggi siamo con Emanuela Goldoni, una professionista della comunicazione. Approfittiamo di questa opportunità per conoscere il suo punto di vista sul tema dell’inclusività nella comunicazione dei Brand.

Benvenuta Emanuela e grazie per essere qui con noi. Durante questa chiacchierata ti faremo come da format 5 domande per conoscere le tue idee in materia.

Partiamo!

Credi che si possa trovare un equilibrio nella comunicazione dei Brand sul tema inclusività oppure solo alcuni possono o devono farlo?

Per rispondere alla tua domanda, faccio un passo indietro. Inclusività oggi vuol dire tante cose che per convenzione tendiamo a racchiudere nell’acronimo DE&I: diversità, equità ed inclusione. Prima di essere un tema di comunicazione corporate, l’inclusione è un insieme di temi politici, che riguardano le istanze sociali dei cittadini.

La relazione del brand con questi temi si riflette nel modo attraverso cui l’azienda stessa sceglie di avere un ruolo nel dibattito politico, non solo all’interno del proprio perimetro, ma anche al di fuori. Il minor o maggior grado di inclusione di un’azienda dipende molto da quanto i diversi interlocutori aziendali strategici sono allineati fra di loro: vertici aziendali, marketing, CSR, HR e comunicazione. Un’esigenza, tra l’altro, di comunione di intenti non nuova, ma fatta emergere già nel 2014 da Anne Bahr Thompson con un articolo su The Guardian proprio sulla brand citizenship, se vogliamo un sinonimo del brand activisim, poi diventato oggetto del suo libro “Do Good: Embracing Brand Citizenship to Fuel Both Purpose and Profit“.

Come vedi ho messo per ultima la comunicazione, non a caso, perché credo che il suo lavoro arrivi solo dopo.

Se un’azienda, dalla PMI a quella più strutturata, nel proprio piano strategico considera queste tematiche un asset di valore e indica la DE&I come un territorio di posizionamento strategico, allora questa assunzione di responsabilità ce la ritroviamo a cascata anche nella comunicazione, non solo nei confronti dei propri clienti e di tutti gli interlocutori di un’azienda, ma anche di quelli di una intera comunità.

Non tutte le aziende sono obbligate a prendere posizione e strutturate per fare un cambiamento culturale di questo tipo, perché quel cambiamento significa l’aver rivoluzionato tutti i connotati aziendali, compresi quelli del business.

È un processo organizzativo che richiede tempo e che getta le basi della credibilità aziendale, che non si costruisce più in base a quanto una realtà dichiara, ma si misura sempre di più in base a quanto la stessa è in grado di produrre. Se così non fosse, saremmo di fronte all’ennesimo caso di “qualcosa-washing” che a livello reputazionale può avere spesso risvolti negativi.

Concludo quindi dicendo che oggi è l’inclusione, non la comunicazione, a non essere più negoziabile: o si è concretamente inclusivi o non lo si è.

L’educazione e la sensibilizzazione possono contribuire in qualche modo a rendere più consapevoli i brand?

Credo che la sensibilizzazione e la divulgazione facciano sicuramente parte del percorso di consapevolezza delle aziende. Questi processi però vengono dopo.

Penso sia efficace partire innanzitutto da un fase di autocritica, momento necessario di conoscenza e di autoconsapevolezza che aiuta un brand a indagare intanto su quanto sia inclusivo, prendendo a campione tutta la propria popolazione aziendale: quali difficoltà, ostacoli, pregiudizi minacciano la piena emancipazione delle persone in azienda? Sarebbe interessante introdurre una sorta di osservatorio interno intanto utile per fotografare lo stato attuale di una realtà e confrontarlo con il mercato per poi sviluppare il miglior approccio strategico.

Le aziende dovrebbero adottare in modo più rilevante la Progettazione Universale (Universal Design) nella creazione dei loro prodotti?

Credo che applicare lo Universal Design alla propria comunicazione, se un’azienda si dichiara tale, sia inevitabile. Qualsiasi oggetto pensato, originariamente, privo di barriere o elementi respingenti nella relazione e interazione con un interlocutore è realmente inclusivo.

L’inclusione non diventa più un accessorio aziendale, ma diventa parte integrante del sistema-azienda.

Pensi che ci sia l’equivalente del greenwashing sul tema della inclusività?

Certo che esiste e potrei fornirti un elenco ancora più lungo.

Te ne posso citare intanto alcuni, come il “rainbow-washing”, il “peace-washing”, il “disability-washing”, il “women-washing”, il “black-washing” e così via. Solitamente sono sempre molto prudente e critica, quando leggo negli articoli di giornale “Best” o “Top” riferito ad aziende finite in una qualche classifica che prende in esame i valori aziendali dei brand. Mi pongo delle domande e verifico se c’è gender balance negli organigrammi, valuto la coerenza a livello di comunicazione, leggo i dati sui bilanci aziendali, guardo cosa dicono i dipendenti delle aziende presenti su Glassdoor o applicazioni simili e poi ridimensiono l’opinione.

Se potessi dare un consiglio alle aziende, come potrebbero comunicare in modo più efficace l’inclusività?

Nella maggioranza dei casi i prodotti di comunicazione sono pensati per un fruitore neurotipico, maschio, giovane, eterosessuale, in salute, senza alcun tipo di disabilità neurosensoriale o neurodivergenza.

Immagina cosa accadrebbe se attorno ad un tavolo di lavoro tra i referenti della Comunicazione, del Customer Experience, dell’IT ci fossero colleghi rappresentanti di diverse sensibilità ed esigenze. Sarebbe finalmente l’inizio di un progetto di comunicazione inclusiva.

L’inclusione non è mettere una schwa o un asterisco ogni tanto in qualche comunicato o post social e poi continuare a proporre immagini stereotipate femminili.

L’inclusione non è sottolineare che un evento o un video è fruibile in lingua dei segni (LIS), se poi non sono presenti i sottotitoli.

L’inclusione non è sostenere i diritti LGBTQI+ e poi trovare ancora moduli in cui l’utente è costretto a barrare unicamente ”Uomo” o “Donna” o “Altro”.

Come immagini, c’è del lavoro da fare e siamo tutti coinvolti!

L’intervista con Emanuela si conclude qui e lo ringraziamo per aver condiviso il suo punto di vista. Credo che questi contenuti possano contribuire ad una maggior consapevolezza su questo tema.

Qui vi lascio i suoi riferimenti e vi invito a scoprire altre interviste e chiacchierate sul Branding.

Alla Grande!

Emanuela Goldoni
Professionista della Comunicazione
linkedin.com/in/emanuelagoldoni

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